Nei tempi lunghi della storia, e nei diversi contesti, le persecuzioni non iniziamo sempre nello stesso modo, e non hanno sempre la stessa valenza e la stessa radicalità. Il che pone innanzitutto la domanda di cosa definire come persecuzione. Basta, a definirla tale, la perdita di alcuni diritti, il passaggio ad uno statuto giuridico minoritario, come per esempio nei confronti degli ebrei dopo l’inizio dell’Impero romano cristiano, o possiamo definire come persecuzioni solo fatti di estrema gravità, che comportano morte ed esecuzioni, come nel Medioevo la caccia alle streghe o ai nostri giorni, i genocidi del Novecento, come quello degli armeni, o la Shoah? E che dire oggi della pulizia etnica nei confronti dei palestinesi e della distruzione della striscia di Gaza? Le persecuzioni, ricordiamolo, riguardano sempre, o almeno quasi sempre, minoranze inserite nella maggioranza, gruppi individuati come nemici all’interno della società, non nemici esterni. Sono un processo interno, nel Novecento portato avanti dai poteri statali.
Le persecuzioni possono iniziare gradualmente, come la Shoah, in cui Hitler si prefisse a lungo lo scopo di sbarazzarsi degli ebrei attraverso l’emigrazione e solo nel 1941 passò alla “soluzione finale”. Ma tutte, come la Shoah, sono precedute da leggi che limitano i diritti della minoranza perseguitata, da propaganda che la disumanizza. Soprattutto nei casi in cui la persecuzione porta allo sterminio, questi passaggi sono indispensabili.
Ci concentreremo sulle leggi del 1938 in Italia e sul passaggio alla persecuzione delle vite degli ebrei nel 1943 e sulla persecuzione dei palestinesi nei territori occupati da Israele nel 1967, non collegando i due casi come simili, ma distinguendo le differenze e, nel caso, le somiglianze.
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